Analisi

Economia Circolare: poco pronto il manifatturiero italiano



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Dai risultati di un’analisi condotta dal Laboratorio RISE dell’Università di Brescia emerge come le imprese manifatturiere italiane non siano ancora pronte nella transizione da una economia lineare a una economia circolare. I risultati secondo l’indice C-Readiness

Aggiornato il 10 ott 2023



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Le imprese manifatturiere italiane sono ancora poco pronte sui temi e sui paradigmi dell’economia circolare.

È questo, in sintesi estrema, il risultato di una analisi condotta dal Laboratorio RISE dell’Università di Brescia presentata in questi giorni e condotta su un campione di 144 imprese del settore manifatturiero.

Le premesse della ricerca sull’economia circolare nel manifatturiero

La ricerca ha preso origine da una constatazione di partenza necessaria: le supply chain lineari, quelle sulle quali si è sviluppata l’attività industriale, basandosi sul principio “dalla culla alla tomba” non sono più sostenibili: è oggi necessario accelerare la “transizione verso una nuova economia in grado di disaccoppiare la crescita economica dal consumo di materie prime e dallo sfruttamento di risorse”.
E la possibile alternativa è rappresentata proprio dall’adozione di un paradigma differente: quello dell’Economia Circolare, che chiude di fatto il cerchio tra il fine vita dei prodotti e le attività di approvvigionamento, design, produzione e consumo e nella quale la generazione di valore si sposta verso il “migliore impiego di prodotti e materiali già esistenti, attraverso cicli di riutilizzo, di rigenerazione dei componenti e di riciclo  dei materiali sfruttando, laddove possibile, energia prodotta da fonti rinnovabili”.

Se questo è il principio di partenza, la domanda successiva è inevitabile: ma le imprese italiane sono pronte ad affrontare questa transizione?

La metodologia della ricerca: lo strumento di C-Readiness

Per condurre la loro analisi, i ricercatori del RISE hanno sviluppato uno strumento ad hoc: un tool di valutazione per misurare l’effettivo grado di maturità delle imprese rispetto ai temi della circolarità e applicabile a livello di azienda, di singolo prodotto o di gamma di prodotti.
Il tool di C-Readiness si articola su 6 aree di valutazione che seguono il ciclo di vita di un generico prodotto e la relativa catena del valore: struttura del prodotto, processi produttivi, modello di business, supply chain, rigenerazione e fine vita, cultura green e buone prassi aziendali.

Le evidenze che emergono dai risultati dell’analisi di C-Readiness, incrociate con quelle di impatto ambientale che emergono da valutazioni di Life Cycle Assessment o Carbon Footprint di prodotto possono “fornire interessanti indicazioni di sviluppo, come ad esempio l’identificazione di aree sulle quali è necessario investire per incrementare la circolarità aziendale.

I risultati dell’analisi

Dalle analisi del campione interpellato (200 rispondenti per un totale di 144 imprese), il dato che emerge non è particolarmente lusinghiero: si parla infatti di un punteggio medio di circolarità (il C-Score) di 45 punti su 100. Più del 70% delle imprese ha infatti registrato un C-Score inferiore ai 50 punti a dimostrazione di quanto sia complessa la transizione.
Una transizione necessaria, che richiede tuttavia tempi medio-lunghi per realizzarsi, come sottolinea Gianmarco Bressanelli, main researcher del team del Laboratorio RISE che ha condotto lo studio, anche in ragione “della sistematicità e trasversalità di questa trasformazione rispetto alle attività di un’azienda.”

Le grandi imprese più reattive rispetto alle PMI

Un dato statisticamente significativo che emerge dallo studio è che il fattore dimensionale influisce sull’approccio all’Economia Circolare: le aziende di grandi dimensioni hanno ottenuto un punteggio medio di circolarità superiore di ben 14 punti rispetto alle controparti di medie e piccole dimensioni.
In questo caso, evidenzia a sua volta Nicola Saccani, Professore Associato del Laboratorio RISE – Università di Brescia e coautore della ricerca, pesa sicuramente il fatto che le imprese di più grandi dimensioni siano soggette ad obblighi normativi e di rendicontazione e si trovano “sotto osservazione” per quanto riguarda gli aspetti ambientali.
Più delle PMI, inoltre, le grandi imprese mostrano “maggior capacità d’investimento e facilità di accesso ai capitali, che le porta in maniera più agevole ad investire in processi d’efficientamento e/o di controllo della filiera in ottica ci sostenibilità, come evidenziato da un punteggio più elevato nelle aree relative ai processi produttivi (nella quale risiedono gli interventi di efficientamento energetico e gli investimenti nella produzione di energia da fonti rinnovabili) ed alla supply chain.”

Circolarità sui prodotti, meno sulle supply chain e sui modelli di business

I dati positivi che emergono dall’analisi riguardano la buona predisposizione delle imprese italiane rispetto al design di prodotti circolari, così come sulla cultura green e le buone prassi aziendali.
Sono però meno pronte a certificare questa predisposizione: oltre l’80% delle aziende dichiara di non detenere nessuna certificazione ambientale di prodotto e manca, specialmente nelle aziende di dimensione più piccola, un’adozione diffusa di strumenti strutturati per una comunicazione verso i propri stakeholders dei progressi raggiunti in chiave sostenibilità, così come è assente la figura del sustainability manager, figura chiave per guidare la transizione verso l’Economia Circolare in azienda.
Le imprese sono al lavoro anche su tematiche quali l’efficientamento energetico e la riduzione delle scarti di produzione.
Decisamente più difficili sono altre prassi, come l’adozione di strumenti che facilitino la tracciabilità di prodotti e materiali lungo la supply chain, così come l’adozione di nuovi modelli di business, servitizzazione in primis, dove il punteggio medio è addirittura di 27 punti su 100.

Qualche raccomandazione: le aree di attenzione

Dallo studio emerge, in conclusione, sia la necessità di un impegno più strutturato su alcune aree specifiche, come la gestione del fine vita dei prodotti, sia di una accelerazione nell’adozione di modelli di business che prevedano da un lato anche l’offerta di linee di prodotti ricondizionati, dall’altro l’applicazione di modelli di business circolari as-a-service come il leasing, il pay-per-use e lo sharing.
La loro adozione, conclude lo studio, è “di fondamentale importanza per disaccoppiare la crescita economica dal consumo di materiali e dalla generazione di rifiuti”.

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