Smart working: che cos’è, a cosa serve e perché è così importante per il business

Lo smart working è l’evoluzione tecnologica e culturale del posto di lavoro. Nelle aziende non è ancora un modello di riferimento perché la digital transformation viene chiamata in modi diversi a seconda degli usi e consumi che le varie linee di business fanno di sistemi e procedure. I numeri, però, confermano come lo smart working sia vincente per il business

Pubblicato il 28 Dic 2015

smart-working-151128111329

Capire il significato dello smart working (o smartworking, come lo chiama qualcuno) non è immediato e nemmeno così intuitivo. Il motivo principale è che lo smart working non si compra a pacchetto, includendo una serie di tecnologie diverse per ogni linea di business e che hanno nomi diversi (anche se servono tutte a fare smart working).

Così nelle aziende vengono utilizzati sistemi e configurazioni spesso differenti e la frammentazione degli acquisti impedisce una gestione più efficace e lungimirante delle soluzioni e dei modelli di riferimento.

Lo smart working, infatti, non è solo un modo di lavorare più intelligente in termini di fruizione delle tecnologie e del tempo secondo nuovi concetti di qualità della vita e della produttività individuale, ma è anche il risultato di un sapiente uso dell’innovazione, che favorisce la trasformazione digitale delle aziende attraverso cambiamenti che presuppongono nuove capacità di vision e nuovi approcci strategici all’insegna di un’integrazione da cui si genera una maggiore collaborazione tra le persone, in particolare, e tra le organizzazioni, in generale.

Che cos’è lo smart working e perché farà la differenza nel business

Lo smart working, in estrema sintesi, è una nuova dimensione del lavoro che, sfruttando la Mobility, la Unified Communication & Collaboration e il social computing, da un lato favorisce la produttività individuale e la continuità operativa dell’utente (e quindi del business), dall’altro, permette una significativa flessibilità rispetto al posto di lavoro. La chiave di volta? Cambiare i concetti di fruizione del tempo e dello spazio per favorire nuovi modelli di lavoro più efficaci ed efficienti.

Il driver principale dello smart working è il forte cambiamento culturale degli utenti (nel loro ruolo variabile di dipendenti, collaboratori, clienti, consumatori o cittadini): la sua lenta ma indubbia affermazione nelle smart city, infatti, è il risultato di quell’onda lunga portata dalla consumerizzazione dell’ICT e di quella progressiva sensorizzazione del mondo chiamata Internet of Things. Dal mondo analogico al mondo digitale, l’intelligenza delle cose corrisponde alla progressiva informatizzazione di oggetti che, diventando connessi e comunicanti, portano in molte organizzazioni alla rottura dei tradizionali vincoli del lavoratore all’ufficio.

Utilizzare lo smartphone per fare mille altre cose oltre a una telefonata, ha abituato le persone a usare le tecnologie informatiche per comunicare, lavorare, rimanere connessi in mobilità. Il livello di disponibilità all’interazione digitale ha innescato una nuova curva di apprendimento spontanea delle persone, che oggi arrivano in azienda con un livello di preparazione e disponibilità all’innovazione, un tempo inimmaginabili.

Gli italiani i più predisposti allo smart working

Non si può parlare di smart working se non si capisce meglio il contesto. Secondo una recente ricerca di PwC gli italiani hanno acquisito una grande maturità digitale: secondo gli analisti, infatti, il 63,7% delle famiglie italiane è connesso. In dettaglio 3 italiani su 4 sono connessi. Gli analisti, che hanno considerato gli utenti tra gli 11 e i 74 anni, hanno evidenziato come ogni giorno ci siano 12.754mila utenti attivi, con un tempio medio trascorso on line pari a 1 ora e 23 minuti.

Il segmento con la crescita maggiore? L’on line video che in 4 anni è lievitato del +600% (complici gli sviluppi tecnologici dello streaming, del Wi-Fi e degli abbonamenti più favorevoli dei Telco provider). Non a caso, l’Italia è la prima nazione in Europa per numero di contratti SIM (95 milioni di SIM attive nel nostro Paese) e per penetrazione di smartphone versus cellulari (si parla di 19 milioni di cellulari con connettività 3G). Il 47% degli italiani, per farla breve, ha uno smartphone, il che, in altre parole, significa che 1 italiano su 3 possiede uno smartphone e un 1 italiano su 5 accede ai dati in mobilità.

Non è smart working se non c’è mobile management

Di fatto, gli italiani oggi comunicano attraverso una pluralità di dispositivi proprietari e aziendali (dal 2011 si vendono, e non a caso, più smartpone e tablet che pc): il Bring Your Ownd Device (BYOD) un tempo avversato in azienda è diventato il driver principale dello smart working. Anzi: non c’è smart working senza Enterprise Mobility Management. Una priorità delle aziende è definire le politiche di gestione rispetto alla pluralità di dispositivi fissi e mobili utilizzati delle risorse che lavorano o collaborano con le organizzazioni. Altrimenti non c’è business che tenga. La business continuity, infatti, dipende sia dalla governance dei sistemi e dalla loro messa in sicurezza, sia dalla garanzia dei servizi che assicurano massima produttività individuale alle persone che lavorano.

Dunque gestire la mobility è il primo passo delle aziende che vogliono fare smart working: secondo le cifre stimate dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, rispetto ai dipendenti sempre presenti in ufficio è mediamente più produttivo (nell’ordine di un + 35-45%) chi lavora con orari flessibili, sfrutta le tecnologie mobili e la UCC. Lo smart working, infatti, garantisce la produttività individuale indipendentemente da fatto di essere sempre presenti all’interno dell’azienda e fa assentare dal lavoro un tempo inferiore: circa il 63% in meno di chi svolge il suo lavoro in maniera tradizionale.

Non è smart working se non c’è UCC management

Il secondo passo è gestire la comunicazione unificata per favorire la collaborazione tra dipendenti, clienti e partner. Definire piattaforme di gestione unificate, capaci di risolvere da un lato sistemi diversi e dall’altro l’integrazione multicanale è un fondamentale dello smart working.

Le tecnologie di Unified Communication&Collaboration oggi includono sistemi di videoconferenza e di visual content management associati a sistemi di File and Syncronization Service ma anche soluzioni di messaggistica unificata che sono in grado di capitalizzare l’informazione strutturata e destrutturata sfruttando le nuove logiche di un Big Data Management associato al CRM e alla Business Intelligence per la rappresentazione delle informazioni e dei valori tramite cockpit, condivisi dalle business room che molte multinazionali hanno introdotto nelle filiali aziendali distribuite per il mondo (Procter&Gamble è un esempio).

Le tecnologie di Unified Communication & Collaboration oggi abbracciano anche l’aspetto social con cui le persone hanno imparato a vivere e condividere le informazioni utilizzando canali di comunicazione che hanno portato in azienda: il 25% degli italiani usa WhatsApp, il 24% usa Facebook, il 17% usa Facebook Messenger, il 14% usa Skype, il 10% usa Twitter, il 10% Google+, il 6% Instagram e il 5% Linkedin (Fonte: We Are Social 2015). Sono dati che dovrebbero far ragionare chi si occupa di governance, anche perché sfruttare l’integrazione e la collaborazione aumenta la produttività individuale accelerando il time to market del business.

L’UCC management risolve anche tutti gli aspetti legati alla sicurezza e, in particolare, alla gestione delle identità che, nelle forme più evolute, attingono alla biometria per accelerare gli accessi e garantire le procedure di presidio delle informazioni.

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!

Articoli correlati

Articolo 1 di 3